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L'Italia nella Prima Guerra Mondiale

Sul piano strettamente militare, l'esercito italiano, guidato dal capo di stato maggiore Alberto Pollio dal giugno 1908 al luglio 1914, aveva rafforzato le linee di difesa soprattutto sul fronte nord-orientale, avviando la modernizzazione degli armamenti e riorganizzando le forze dopo la campagna di Libia del 1911-1912. Luigi Cadorna, succeduto a Pollio, pur nell'incertezza della situazione politica interna ed estera, diede inizio alla mobilitazione e poco dopo lo scoppio delle ostilità si trovò ad avere a disposizione 4 armate, suddivise in 14 corpi d'armata e 40 divisioni per un totale di 1.090.000 uomini, 216.000 quadrupedi, 3.300 automezzi, 930.000 fucili, 620 mitragliatrici e oltre 2.150 pezzi d'artiglieria. Sui circa 650 km di confine tra Italia e Austria le forze italiane furono così distribuite: la armata, dallo Stelvio alla val Cismon (passando per il Cevedale, Tonale, Adamello, alto Garda, altipiani di Tonezza e Asiago); 4a armata in Cadore e Carnia. Dal Monte Canin lungo il fiume Isonzo fino al mare la 2a e la 3a armata.

Gli austriaci misero in campo 221 battaglioni divisi fra comando del Tirolo, gruppo d'armata della Carinzia e 5a armata sul fronte isontino. La parziale inferiorità numerica delle loro forze era compensata da uno schieramento piu’ favorevole perche’ appoggiato a postazioni dominanti e ben protette, servite da un'efficiente rete stradale. Da notare che dallo Stelvio al Cadore gli opposti schieramenti si fronteggiarono quasi sempre in zone d'alta montagna dove i combattimenti si svolsero molto spesso in condizioni proibitive, con colpi di mano, azioni di mina e contromina durate mesi e avvalendosi dell'opera instancabile dei genieri per far giungere ogni tipo di rifornimento fino a postazioni isolate anche oltre i 3.000 metri.

Il piano d'attacco del comando supremo italiano prevedeva in Trentino azioni locali miranti a impadronirsi di postazioni più favorevoli alla difesa, cercando di diminuire l'estensione del pericoloso saliente a sud di Trento. Nella zona del Cadore era previsto un attacco verso la piana di Dobbiaco e di Sesto mentre lo sforzo principale doveva essere esercitato a est, oltre l'Isonzo, verso Gorizia e Trieste e poi verso Lubiana e Zagabria, in coordinamento con le azioni di russi e serbi.

Pochi giorni dopo la dichiarazione di guerra dell'Austria-Ungheria alla Serbia, il 3 agosto 1914, il governo presieduto da Salandra dichiarò la neutralità dell'Italia. Sul piano formale si era richiamato a una delle clausole del trattato della Triplice alleanza, firmato nel maggio 1882 con Germania e Austria-Ungheria e più volte rinnovato, che prevedeva l'intervento militare solo in caso di aggressione a una delle tre monarchie.

In realtà, il paese era diviso tra neutralisti e interventisti. Fra i primi, in maggioranza, i cattolici, i liberali di Giolitti e i socialisti; fra i secondi, gli irredentisti, i liberali conservatori, i socialisti riformisti, poi i repubblicani e l'ala defezionista socialista guidata da Mussolini.

 

A conferma di uno stato di instabilità e incertezza politica, all'interno di questi schieramenti le posizioni subirono profondi mutamenti tra l’estate del 1914 e la primavera del 1915. I nazionalisti, ad esempio, sostenevano l'intervento, ma inizialmente a fianco della Triplice e solo dopo a fianco dell'Intesa. A sfavore dell'alleanza con gli Imperi Centrali pesavano le sconfitte subite nel 1866 nella terza guerra d'indipendenza contro l'Austria, al termine della quale era comunque stato acquisito il Veneto, ma non il Trentino e parte della Venezia Giulia, rimaste sotto il controllo del governo di Vienna. Seguendo ancora una volta, e non sarà l'ultima, l'ambigua politica del doppio binario, Roma intavolò trattative con Vienna per ottenere in via pacifica le terre irredente, senza però raggiungere nessun risultato tangibile.

 

Il passo decisivo per il mutamento delle alleanze fu rappresentato dal patto firmato segretamente a Londra il 26 aprile 1915 con i rappresentanti di Gran Bretagna, Francia e Russia, in base al quale l'Italia si impegnava a scendere in guerra a fianco dell'Intesa entro un mese. In cambio, in caso di vittoria avrebbe ottenuto, fra l'altro, il Trentino e l'Alto Adige fino al Brennero, Trieste, Gorizia, Gradisca, parte dell'Istria e della Dalmazia, diritti sull'Albania.

Dopo la denuncia della Triplice alleanza il 3 maggio, il governo Salandra, sulla spinta anche degli interventisti che avevano dalla loro parte un propagandista come Gabriele D'Annunzio, presentò al governo di Vienna la dichiarazione di guerra il 23 maggio 1915 , fissando l'inizio delle ostilità al giorno successivo.

Poco dopo l'inizio delle ostilità, a nord sul fronte alpino fu occupata Cortina d'Ampezzo, il Monte Altissimo, il Coni Zugna e il Pasubio, mentre il caposaldo del Col di Lana fu attaccato senza risultato. A est fu raggiunta Monfalcone, Plava e a metà giugno fu conquistato il Monte Nero. Subito dopo iniziò la lunga serie di battaglie che presero il nome dal fiume Isonzo perché combattute in gran parte sulle sue rive e nelle zone circostanti. A fronte di qualche chilometro di terreno conquistato le perdite in questa porzione del fronte, assommarono a oltre 300.000 uomini: 131.000 austriaci e 173.000 italiani, tragico risultato della cosiddetta guerra di logoramento o di materiali.

Luigi Cadorna, capo del nostro tremebondo ed antiquato esercito, riteneva le armi a sua disposizione sufficienti a capovolgere il rapporto di forza tra le parti belligeranti – nel dicembre 1914 egli osservava che: «La bilancia è oggi oscillante e piuttosto a sfavore degli Imperi centrali. Se un altro esercito viene gettato sul piatto avverso, dovrebbe traboccare». Infine, anche dall’estero non mancavano pressioni e il comportamento italiano non brillò certamente nell’ambito delle stesse rivendicazioni territoriali, avanzate prima con Austria e Germania, promettendo in cambio un rientro nella Triplice Alleanza, poi nei confronti dell’Intesa, quando il nostro governo non riuscì ad accontentarsi delle terre e addirittura delle ricompense economiche promesse dall’Austria stessa, in cambio della nostra neutralità! Dopo un lungo e tortuoso mercanteggiare, a Londra, nell’aprile del 1915, il governo italiano firmò un patto segreto con cui si impegnava a schierarsi in guerra al fianco di Francia e Inghilterra. Anche se il re si dichiarava a favore della guerra, il Parlamento, ancora contrario, fu in pratica costretto ad approvare il suddetto patto. Il 24 maggio 1915 anche l’Italia entrò in guerra a fianco dell’Intesa. Degno di particolare menzione è il fatto che, al contrario di quanto recita il più famoso inno patriottico di quei tempi (peraltro scritto sul finire della guerra)  «La Canzone del Piave», nel maggio 1915 l’Italia non subì alcuna invasione da parte degli Austro-Ungarici, ma di contro cercò fin dall’inizio delle ostilità di varcare i suoi confini, nella spasmodica corsa verso Trento e Trieste.

Copyright Alessandro Gualtieri 2010

 

Per ulteriori approfondimenti: www.lagrandeguerra.net

La strategia italiana

 

Le quattro principali cause dell’azzardata entrata in guerra del nostro Paese, al fianco delle forze dell’Intesa, possono essere identificate in:

a) bisogno di grandezza,

b) rischio di una crisi politica,

c) errate valutazioni sull’importanza dell’impegno bellico,

d) avidità di «facile espansione territoriale». 

Il nostro Paese infatti, non voleva entrare in guerra a fianco degli Austriaci che occupavano ancora i territori di Trento e Trieste. In Italia predominava il partito dei neutralisti, ma la minoranza interventista era assolutamente dell’avviso di cambiare alleanza e di schierarsi contro l’Austria. La stampa interventista, dal «Corriere della sera» all’«Idea nazionale», si adoperava senza tregua per convincere tutti che, restando neutrale, il nostro Paese non sarebbe mai diventato una “grande potenza”. L’interventismo proponeva l’annessione delle terre cosiddette «irredente», considerate italiane, ancora in mano straniera, quali il Trentino, la Venezia Tridentina, la Venezia Giulia, Istria, Fiume, Dalmazia, Nizza, Canton Ticino, Corsica e Malta. I territori considerati irredenti erano definiti tali in modo arbitrario: a volte si considerava il criterio etnico, ossia la presenza di italofoni, altre volte quello geografico, appartenenza ai confini naturali, altre ancora a quello storico, appartenenza del territorio, in passato, ad uno degli antichi stati italiani. I cattolici e buona parte dei socialisti si professavano dichiaratamente pacifisti e neutralisti. Giolitti, che da poco aveva lasciato la presidenza del consiglio, si era impegnato ufficialmente per cercare di garantire la neutralità italiana. Il famoso statista era convinto che gran parte del territorio italiano ancora occupato dall’Austria («parecchio», come lui stesso lo definì) potesse essere ottenuto con la diplomazia e non con la violenza. Di contro, il ministro degli Esteri Sidney Sonnino e altri con lui, intendevano approfittare della guerra proprio per «spazzare via il parlamentarismo giolittiano». Quest’ultimo era considerato una pratica di governo troppo trasformista, dedita a frequenti compromessi con il partito socialista dell’epoca e a una diretta manipolazione elettorale, che affidava i risultati delle urne alle intimidazioni dei prefetti e dei potentati locali. Una specie di prova generale di dittatura segreta. Giolitti, da parte sua, avrebbe di certo voluto sbarazzarsi dei membri di quel Governo interventista a lui tanto indigesto. Se, con i deputati a lui fedeli, Giolitti avesse continuato a opporsi all’intervento, l’Italia sarebbe andata incontro a una crisi istituzionale di proporzioni enormi e lui stesso ne sarebbe stato travolto. Appiattendosi sulle posizioni dei socialisti neutralisti e del Vaticano non avrebbe più avuto davanti a sé una qualsiasi prospettiva di rinnovamento costituzionale e liberale.

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