Alessandro Gualtieri
Pietro Badoglio a Caporetto
Alle ore 2 del 24 ottobre 1917 iniziò un violento fuoco di artiglierie austro-tedesche da Plezzo a Tolmino, sulla fronte Isontina. Verso le 6 del mattino il fuoco si concentrò sulle prime linee del IV e XXVII corpo della Seconda Armata italiana. I soldati fuggirono, cercando riparo nelle caverne naturali o nelle gallerie precedentemente scavate nelle alture sulla sinistra dell’Isonzo. Ben presto la linea di difesa della Seconda Armata venne sfondata a sinistra e al centro, proprio in corrispondenza degli schieramenti dei due corpi d’Armata suddetti. Dopo numerose indecisioni, cambiamenti di rotta e, in generale, un clima di totale confusione, Cadorna decise la ritirata generale, che si concluse, con moltissime perdite, il 9 novembre sulla linea del Piave.
Ecco in sintesi le fasi salienti della Dodicesima Battaglia dell’Isonzo o “Caporetto”. Come principali motivazioni della sconfitta, causata principalmente dall’effetto sorpresa, si possono evidenziare:
a) i difficili rapporti tra le due fortissime personalità di Cadorna
e del Generale Capello (Comandante della II Armata)
b) un grosso errore di previsione delle intenzioni nemiche (anche dopo lo sfondamento delle prime linee Cadorna si ostinò a credere in un semplice attacco dimostrativo)
c) un grosso ritardo nella controffensiva
d) un vizio iniziale nella disposizione delle truppe e delle artiglierie, troppo avanzate seguendo gli ordini
del Generale Capello.
A queste principali imputazioni si potrebbero aggiungere la nebbia e la pioggia, che mimetizzarono l’avanzata nemica, la vulnerabilità del fronte italiano, troppo proteso dentro a salienti difficilissimi da difendere, e una grave “disubbidienza” del Generale Pietro Badoglio, che comandava il XXVII corpo d’armata. Parlando di quest’ultima mancanza del graduato che poi divenne uno dei personaggi chiave dell’armistizio del 8 settembre 1943, Mario Silvestri, nel suo “Isonzo 1917”, sviluppa in dettaglio la grave colpa di cui il Generale si sarebbe macchiato a Caporetto. E’ utile infatti, per molti storici, analizzare le vere cause tecniche del più grande disastro italiano della Grande Guerra, lasciandosi alle spalle la triste e scottante eredità di plagi e false accuse creata dallo Stato Maggiore italiano ai danni dei coraggiosi ed irriducibili fanti della Seconda Armata.
Ma Pietro Badoglio fece di più. Nella conca di Volzana, dove il XXVII corpo era schierato, l’esercito italiano si trovava nel punto più pericoloso del fronte: in quell’unico punto, l’ansa di Tolmino, gli austriaci tenevano saldamente la riva destra dell’Isonzo e stavano ammassando truppe per l’attacco. L’ordine specificamente dato da Cadorna, che il XXVII Corpo si portasse sulla riva destra del fiume, non fu eseguito; e questo ha fatto pensare molti storici, Silvestri compreso, che si fosse voluta preparare addirittura una trappola – la trappola di Volzana. Lo schieramento era tale che vi è anche stato chi ha dubitato di tradimento. Ma l’ipotesi più attendibile rimane quella della trappola, tesa da un generale irresponsabile e in cerca di facile gloria. Comunque sia, le strane circostanze che si sono verificate hanno mostrato che nel suo punto più debole e più pericoloso il fronte fu lasciato così scoperto da potersi credere che sia stato fatto apposta, sia pure per un piano, anche ottimo, che fallì. Vediamo in dettaglio le suddette anomalie:
1) il 22 ottobre fu sottratto al IV Corpo d’Armata e affidato al XXVII il tratto del fronte dove le due armate si congiungevano e dove uno sfondamento avrebbe concesso di aggirare il IV Corpo d’Armata, che era quindi quello interessato a difenderlo;
2) il movimento succitato non fu coordinato con lo schieramento seguente, così che venne a mancare una linea di resistenza continua;
3) solo una piccola parte della brigata Napoli, destinata a coprire quel tratto di fronte, vi fu schierata, lasciando il fronte non solo praticamente indifeso, ma affidato a truppe che non lo conoscevano;
4) le artiglierie del XXVII Corpo d’Armata, non certo schierate sulla difensiva, erano state affidate ad un nuovo colonnello (Col. Cannoniere) al quale Badoglio aveva dato l’ordine di non aprire il fuoco, che quest’ultimo si riservava di dirigere personalmente. Le artiglierie furono tagliate fuori dal cannoneggiamento di preparazione nemico, Badoglio poté raggiungerle soltanto a sera, dopo che tutto il giorno erano rimaste tragicamente silenziose. Un tiro di sbarramento di quelle centinaia di bocche da fuoco avrebbe potuto rallentare, se non arrestare, l’avanzata delle truppe austro-tedesche, ma Badoglio continuò inspiegabilmente a rendersi irreperibile e a mancare qualsiasi appuntamento tattico di controffensiva.
Si sa che Cadorna, primo fra tutti, si adoperò sempre a puntare il dito contro le proprie truppe, accusandole di disfattismo e mancanza di spirito combattivo – tutto per nascondere i molteplici errori di comando e le analoghe lacune dei suoi generali.
Pietro Badoglio, stanziato con il suo XXVII corpo d’armata di fronte a Tolmino, dove gli austro-tedeschi attuarono una delle due principali infiltrazioni, era sotto il comando del Generale Capello, convinto sostenitore di tattiche difensive che privilegiassero al massimo la più immediata controffensiva.
In buona sostanza, mentre Cadorna predicava un saggio arretramento spontaneo, su linee più facilmente difendibili, Capello e Badoglio corsero il grosso rischio di avanzare tutta l’artiglieria, lasciare immutate gli schieramenti e non abbandonare neanche un solo metro quadrato; del resto, anche ogni piccolo successo, in termini di avanzata verso l’agognata Trieste, era stato pagato a caro prezzo: come giustificare dunque all’opinione pubblica i precedenti bagni di sangue di fronte ad un arretramento spontaneo?
Balza dunque agli occhi quest’ultima considerazione e cioè che, se Badoglio avesse fatto tuonare la sua artiglieria, l’esito dello sfondamento a Tolmino sarebbe stato certamente diverso; se non altro, le rimanenti porzioni del fronte avrebbero intuito che qualcosa di grave stava accadendo, limitando così i devastanti effetti della sorpresa strategica nemica. Ma Badoglio sembra davvero aver giocato col fuoco e troppo.
Ben venga la trappola preparata arrischiando l’artiglieria in piena zona di guerra (e pertanto facile preda del nemico in caso di insuccesso – come precisamente avvenne), e così pure l’attesa fino all’ultimo istante per scatenare un inferno di fuoco sugli austro-tedeschi. Ma, fidarsi ciecamente di linee telefoniche improvvisate, piccioni viaggiatori o intrepidi ma vulnerabili portaordini, per controllare da lontano lo svolgimento della battaglia e decidere il momento giusto per intervenire, fu davvero un azzardo troppo rischioso.
La Commissione d’Inchiesta ufficiale, nominata il 12 gennaio 1918, proprio per indagare sulle causa della sconfitta, indentificò in gran parte delle succitate mancanze di Badoglio i principali capi d’accusa a lui imputati. Ma la Commissione si spinse oltre, ipotizzando una sorta di patto segreto tra Badoglio e i suoi immediati superiori (Gen. Capello e Gen. Montuori – quest’ultimo comandava ad interim la Seconda Armata quel 24 ottobre 1917), trovando altrimenti inspiegabile il fatto che i Comandanti d’Armata non fossero al corrente del suo operato. Tutti e tre i personaggi, fra l'altro, vantavano lo stesso tipo di associazione massonica.
Contrariamente alle aspettative, la Commissione scagionò quasi totalmente il Generale inizialmente imputato come maggiore responsabile dello sfondamento del fronte. Addirittura, sembra che dal rapporto, siano state deliberatamente asportate tredici pagine riguardanti proprio Badoglio. In buona sostanza, si elargirono gravi colpe a destra e a manca, guardandosi bene dal colpire un generale che, poco dopo, venne addirittura osannato dall’opinione pubblica per la svolta positiva presa dalla Guerra, durante la resistenza sul Piave.
Si consideri allora anche il peso delle amicizie di Badoglio (il Re, il primo ministro Vittorio Orlando, lo stesso Armando Diaz che subentrò a Cadorna subito dopo Caporetto) e, ancora, la sua importante affiliazione massonica. Si potrebbe anche pensare che il comandante del XXVII corpo d’armata si limitò semplicemente ad attuare un piano segretamente ideato e impostogli dal Generale Capello che, tuttavia, uscì dall’inchiesta ufficiale particolarmente mal ridotto.
In conclusione, il comportamento di Pietro Badoglio fu in gran parte giustificato sulla base degli errori altrui e l’immagine del Generale fu forse l’unica a sopravvivere all’inchiesta ufficiale sul disastro di Caporetto, senza perdere tutto il suo smalto ed il suo prestigio. Questo interessante accadimento della Grande Guerra ha portato a lunghe discussioni ed ulteriori investigazioni da aparte di molti storici di tutto il mondo (la battaglia di Caporetto viene ancora studiata nell’Accademia millitare di West Point, negli Stati Uniti).
Probabilmente non si potrà mai fissare un punto di incontro delle molteplici tesi avanzate nel corso di quasi un secolo. Tuttavia, credo di aver trovato una giusta chiave di lettura e, soprattutto, una proverbiale valvola di sfogo per questo insolito “tormentone” di accuse, teorie e ipotesi storiche e pseudo-ufficiali.
Se ci si prende la briga di leggere con attenzione l’analisi strategica della Dodicesima Battaglia dell’Isonzo, redatta dal Generale Roberto Bencivenga (“La Sorpresa Strategica di Caporetto”), scopriremo che, anche se i cannoni di Badoglio fossero entrati in azione o, ancor meglio, se quest’ultimo avesse seguito le direttive difensive impartite da Cadorna, gli austro-tedeschi avrebbero comunque sfondato. Ciò probabilmente non si sarebbe verificato a Tolmino, bensì nella conca di Plezzo, dove la direttrice Saga-Udine risultava comunque totalmente scoperta e sguarnita.
Inoltre, il Comando Supremo (Cadorna) non disponeva di alcuna riserva in zona (quelle più vicine erano a Udine o a Cormons, a decine e decine di chilometri dal punto di sfondamento avversario) e, proprio come avverte uno dei dogmi di Bencivenga, rimase praticamente semplice spettatore della disfatta.
Attaccando con i gas e le artiglierie nella conca di Plezzo, con grande sorpresa degli italiani, gli austro-tedeschi si trovarono quasi subito aperta e totalmente incustodita la principale via d’accesso alla pianura friulana (direttrice Plezzo-Saga-Udine); l’arretramento conseguente di tutta la Seconda e Terza Armata italiana fu allora, solo un gran bene, che riuscì anche evitare l’aggiramento sul fianco nord-orientale dell’intero fronte. E’ vero che il Bencivenga ha per molto tempo vissuto di luce riflessa del “Capo”, ma le sue osservazioni tecniche e strategiche offrono quella verità inconfutabile che manca ad una vera e completa analisi della presunta trappola di Badoglio. Per chi, ad ogni modo, continuò ad indagare sulle vere o presunte mancanze del Generale, la storia riservò in seguito moltissime altre occasioni per concretizzarne un giudizio professionale decisamente misero ed insufficiente.
Copyright Alessandro Gualtieri 2010
Per ulteriori approfondimenti: www.lagrandeguerra.net